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giovedì 25 marzo 2010

Il territorio sacro La nascita del Cammino di Santiago


Partiamo da un’immagine: un cavaliere che monta un destriero bianco lanciato al galoppo, il braccio destro alto a stringere con forza una spada e sotto di lui, tra le zampe del cavallo, i corpi agonizzanti dei nemici vinti. Chiunque si sia incamminato lungo la via di pellegrinaggio che conduce a Santiago conosce queste sculture dai colori vivaci e dai tratti sovente ingenui: il cavaliere è Santiago, San Giacomo, apparso sul campo di battaglia a guidare i cristiani alla vittoria; i nemici sono i musulmani invasori della Spagna.
Questo motivo iconografico, così come appare ossessivamente ripetuto nelle chiese che costeggiano i Pirenei e la cordigliera cantabrica, è relativamente recente: si è sviluppato nel tardo medioevo per poi cristallizzarsi in una sorta di perfezione iconografica in periodo barocco. Questo motivo, soprattutto, ci offre un’immagine, per così dire, matura del culto spagnolo di Santiago, un’immagine in cui tutti gli elementi originari appaiono finalmente disposti in una forma coerente. La complessa storia di questo culto è, per molti versi, ormai nota: molti studi ne hanno chiarito gran parte dell’articolazione, hanno mostrato i fili che collegano Compostela alla Francia, hanno evidenziato le strutture profonde che contribuirono a definire la via di pellegrinaggio, hanno indagato le forme istituzionali che legano il ricordo della guerra contro i mori alle nuove necessità dettate dalla dimensione europea assunta dal cammino di Santiago. Le pagine che seguono partono da un presupposto: che prima della guerra, prima dell’immagine stereotipata di Santiago uccisore di Mori, vi sia la strutturazione di uno spazio e di una fitta trama di necessità istituzionali legata alla nuova definizione del potere resa necessaria dopo la conquista musulmana. Quello che segue è il tentativo di raccontare la nascita di questo spazio, e tracciare una prima ricostruzione della storia che precedette quelle statue di cavalieri armati lanciati contro i mori.
All’origine di tutto questo vi è, dunque, un santo.
Giacomo, chiamato il Maggiore, era fratello di Giovanni e figlio di Zebedeo, un pescatore; i Vangeli non forniscono molte altre informazioni riguardo alle sue origini e associano solitamente il suo nome a quello di Giovanni. Secondo gli Atti degli Apostoli, subì il martirio sotto Agrippa: “Erode fece uccidere di spada Giacomo fratello di Giovanni” (At 12,2); il testo però tace sulla precedente attività missionaria di Giacomo. E’ a partire dal secolo V, quando, cioè, si sviluppa la venerazione verso tutti gli apostoli, che, tanto in oriente quanto in occidente, appaiono compilazioni in cui viene sistematizzata a scopo liturgico una serie di notizie relative ai differenti apostoli: calendari delle feste, breviari, notitia de locis e nomina Apostolorum. E’ in quel periodo, che alcuni testi orientali, tra cui figura una Passio Sancti Jacobi latina di particolare importanza, prendono a evocare la sua predicazione in Giudea e Samaria. La Passio Santi Jacobi, nota anche come Passio Magna, non cita dunque la Spagna: la predicazione di Giacomo, per questo testo redatto tra i secoli V e VI, si sarebbe fermata in oriente.
E’ solo dopo l’anno 600 che comincia a circolare in occidente un’opera che avrà un’enorme importanza per il successivo culto di Santiago. Si tratta del cosiddetto Breviarium Apostolorum, un testo che probabilmente consiste in una traduzione adattata dei Cataloghi Apostolici greci del secolo VI e che pare aver cominciato a circolare nella Penisola iberica verso la fine del secolo VII. E’ in esso che, per la prima volta, appare la notizia della predicazione di Giacomo in Spagna.
Va però subito aggiunto che, malgrado questo e altri accenni a una non meglio precisata predicazione apostolica in Spagna, con particolare riferimento, naturalmente, a Paolo di Tarso, non troviamo alcuna traccia di simili problemi nell’organizzazione della primitiva chiesa spagnola.
Le prime concrete menzioni di un collegamento tra Giacomo e la Spagna non compaiono che a cavallo dei secoli VII e VIII. In particolare, due sono i testi in cui figura un esplicito riferimento alla predicazione dell’apostolo nella Penisola iberica. Il primo è l’opera – inglese - di Aldhelmo di Malmesbury (m. 709), che nel suo poema destinato all’altare di Santiago, segnala la sua predicazione in Spagna. Il secondo è invece un testo di origine spagnola, conosciuto come De ortu et obitu patrum, da molti attribuito a Isidoro da Siviglia e che, in ogni caso, rappresenta un documento di straordinaria importanza, specie per il suo riferimento alla sepoltura spagnola di Giacomo.
Ma, sino a questo momento, nessuno degli scarsi testi a nostra disposizione, rappresenta un valido testimone del fenomeno giacobeo; in altri termini: il fatto che vi siano più o meno precisi riferimenti alla predicazione dell’apostolo Giacomo in Spagna non attesta di per sé la nascita e, tanto meno, la diffusione di un suo culto generalizzato nella Penisola iberica. Per comprendere, però, il successivo radicamento spagnolo del culto di Santiago, occorre aprire una parentesi e intenderci, almeno brevemente, sul significato politico e territoriale di quello spazio che il santo sarebbe stato poi chiamato a proteggere.
IL POTERE ASTURIANO E LA NASCITA DEL TERRITORIO
Sin dai primi tempi, dopo l’invasione musulmana del 711, i re cristiani arroccati nella Spagna del nord ricostruirono il potere a partire da un ricordo: quello di un eredità visigota che li legava direttamente alla romanità. Fu più di un semplice recupero di titoli onorifici: fu un progetto di legittimazione estremamente articolato, che passò attraverso una serie di nuove necessità istituzionali. Leggiamo nel Ciclo di Alfonso III, di Alfonso I (739-757), il sovrano asturiano che avrebbe dato inizio al lento recupero del territorio iberico finito in mani saracene: egli, si dice, dopo molte battaglie contro i Saraceni fece sì che venisse ripopolata (populator) parte del territorio che corre a nord dalle Asturie sino a Pamplona. In questa idea di populatio dobbiamo vedere uno dei termini chiave di questo processo di legittimazione. Contrariamente a quanto pensò una certa endenza storiografica spagnola, l’invasione musulmana non aveva generato, verso nord, una zona di spopolamento strategico, ma piuttosto un’area di grande instabilità, dove sempre più forte si faceva, per il piccolo e giovane regno asturiano, la necessità di affermare un controllo territoriale. E’ tale necessità che troverà realizzazione nell’idea di populatio, termine che indica un processo di colonizzazione, ma anche la sistemazione di nuovi gruppi umani e la fissazione di regole economiche, sociali, amministrative e ideologiche. Tale Populatio patrie ebbe un suo supporto necessario nella contemporanea restauratio ecclesiae: l’organizzazione dello spazio andò definendosi, cioè, attraverso il collocamento e l’organizzazione di gruppi di persone all’interno di un territorio soggetto al controllo ecclesiastico.
E’ questo l’altro imprescindibile elemento della costruzione della legittimità asturiana: Populatio patrie e restauratio ecclesiae vanno assieme non solo dal punto di vista della strategia territoriale: il sovrano incarna necessariamente entrambe. E’ noto come la politica di Alfonso II avesse tratto un nuovo impulso al recupero del proprio passato visigoto e allo sviluppo politico e militare del regno proprio attraverso i buoni rapporti mantenuti con Carlo Magno e la corte palatina: l’idea dell’imperium christianum forgiata da Alcuino, l’idea soprattutto di quella dilatatio christianitatis che in quegli anni sosteneva il progetto di Carlo ai danni dei Sassoni, degli Avari e degli stessi Arabi di Spagna, non poteva non suggestionare i monarchi asturiani che sino a quel momento erano rimasti passivi, arroccati nei monti settentrionali.
Troveremo questi elementi ormai saldati assieme nel periodo, il secolo X, in cui compaiono le redazioni a noi note delle cronache asturiane: di Pelagio, colui che avrebbe respinto la prima avanzata musulmana, si dirà che quanto più diffondeva il nome di Cristo sulla terra, tanto più svaniva il pericolo costituito dai Saraceni; si narrerà della sepoltura di Alfonso I, quando tutti coloro che lì si trovavano avevano udito il canto degli angeli; si ricorderà come, dopo avere sconfitto migliaia di Saraceni, ed avere condotto una vita casta, sobria e pia, il glorioso spirito di Alfonso II fosse tornato al cielo.
Nel caso spagnolo, poi, questo profondo legame tra necessità religiosa e regalità, si unisce a un tema specifico, anch’esso già presente nelle cronache: si tratta quella lamentatio per la perdita della Spagna che costituisce uno dei più diffusi luoghi comuni della storiografia iberica. Di fatto, tale topos funziona, per così dire, solo se posto in intima connessione con un tema molto più antico: quello della laus Hispaniae. Il riferimento diretto è a Isidoro di Siviglia, che nelle Etimologie e nella Historia Gothorum aveva definito i termini di tale elemento retorico, a sua volta desunti in buona parte dalle Georgiche virgiliane. Una terra dall’aria salubre, feconda di ogni tipo di frutto, ricca di pietre preziose e metalli: è questo giardino edenico che i musulmani strappano ai legittimi abitanti. E non è casuale il riferimento al tema biblico della caduta: le cronache non parlano, infatti di nemici, ma di punizione divina, così come era stato per Israele: la crudelitas mostrata dai musulmani è strumento di Dio. E’ a partire da questo che si giustifica ideologicamente la necessità istituzionale della populatio e della restauratio ecclesiae.
LA NASCITA DI SANTIAGO
All’interno di questo quadro Santiago si inserisce in un punto piuttosto preciso. Si tratta dell’inno o Dei verbum patris, un’opera che, stando all’acrostico finale, che fa esplicito riferimento al re Mauregato,dovrebbe essere stata composta tra i 783 e il 788. Tralascio, perché irrilevante in questo contesto, la disputa, tuttora aperta, sull’attribuzione dell’inno, fermo restante che gli argomenti che lo vogliono opera di Beato di Liébana, paiono poco convincenti. Ciò che conta è che questo testo articola, attorno alla figura di Giacomo, un discorso politico relativamente complesso e assolutamente nuovo rispetto alle citazioni che abbiamo incontrato precedentemente. L’inno deve molto nella sua struttura e nei suoi argomenti a svariate tradizioni di provenienza orientale e, in particolar modo, siriaca, ma, al di là di questo, fonda, di fatto, un legame tra il santo e la terra. A Santiago esso si rivolge definendolo come “il più santo apostolo, che rifulge come capo aureo della Spagna”; egli ne è protettore (protector) e patrono (patronus). Più difficile mi sembra sostenere un collegamento diretto tra l’opera del santo e la guerra combattuta da Mauregato, o da altri re asturiani, contro i saraceni. Solo una volta, infatti, l’inno accenna a dei regni conquistati (Regna potiti vestiamur gloria) e, peraltro, all’interno di una strofa, la penultima, strutturata evidentemente come una generica invocazione per la protezione del santo, in cui tutti gli altri elementi attengono alla cura pastorale, riprendendo così, mi sembra, il tema sacerdotale su cui l’inno, in apertura, costruisce l’immagine degli apostoli. Al di là di ogni altro problema filologico, rimane il dato inequivocabile di un legame profondo tra Santiago e la monarchia asturiana.
A questo punto, però, occorre registrare un altro singolare aspetto del problema, e cioè il fatto che le più antiche menzioni della sepoltura di San Giacomo nella Penisola iberica non siano spagnole, bensì francesi. E’ infatti nel Martyrologium di Usuard (m. 877), dedicato a Carlo il Calvo attorno all’anno 875, che troviamo il primo riferimento alla tomba di San Giacomo in Galizia: le sue “santissime ossa” sarebbero state traslate in Spagna, dove godrebbero di grande venerazione. In questa sede non riveste fondamentale importanza il problema filologico relativo al rapporto di tale martirologio con altri due testi del secolo IX di area francese: il Martyrologium di Florus di Lyon (c. 800-860), il cui originale non ci è pervenuto, e la revisione che di esso fece Ado di Vienne (m. 875), in cui possiamo leggere un accenno alla sepoltura dove si precisa maggiormente la sua collocazione vicina all’Oceano. Ciò che appare comunque evidente è come, attorno alla metà del secolo IX, in Francia fosse attestata e relativamente consolidata l’idea che il corpo dell’apostolo Giacomo fosse stato traslato dalla primitiva sepoltura gerosolomitana e si trovasse in Spagna dove godeva di grande venerazione.
E’ solo alla fine del secolo, in particolare in un documento dell’anno 883, che compare la prima menzione spagnola della sepoltura: si garantisce il controllo del sepolcro a un gruppo di monaci e al vescovo Sisnandus di Ira Flavia, che era stato eletto e installato da un concilio provinciale.
Questa serie di dati, di evidente complessa interpretazione, deve inevitabilmente legarsi al difficile problema del “ritrovamento” della tomba di San Giacomo in Galizia, ritrovamento che le posteriori fonti storiografiche spagnole, a cominciare, naturalmente dalla Historia Compostellana, collocano all’epoca del vescovato di Teodomiro di Iria (m. 847). Tralascio volutamente ogni riferimento alle tradizioni relative al trasferimento del corpo di Giacomo dal monastero di Menna, sul Sinai, alla penisola Iberica, e mi soffermo invece sull’aspetto della inventio, tema ampiamente dibattuto, pur senza alcuna precisa soluzione, dalla storiografia classica.
Una notevole modificazione della prospettiva fu offerta, nel 1957, dai risultati della terza fase degli scavi effettuati nel sottosuolo della Cattedrale di Santiago di Compostela, quando apparve proprio il sarcofago di Teodomiro di Iria. Su di esso era incisa una croce asturiana e una epigrafe di quattro linee: in hoc tvmvlo requiescit / famvlvs d(e)i theodemirvs / hiriense sedis ep(iscopu)s qvi obiit / xiii k(a)l(en)d(a) n(ovem)br(i)s era dccclxxxva34. Attraverso tale ritrovamento è stato possibile dare per sicura l’esistenza di una primitiva chiesa compostelana, se non all’epoca di Alfonso II, almeno nell’anno 847, durante il regno, dunque, di Ramiro I. E, inoltre, il fatto che un vescovo di Iria fosse sepolto non nella sede episcopale, bensì a Compostela, lascerebbe supporre un’intenzione consapevole, spia dell’aumentata importanza di quel luogo (la città di Iria si trovava comunque a poca distanza da Compostela)Anche la croce asturiana è elemento di grande interesse e che, di fatto, concorda con gli altri pur scarsi elementi a nostra disposizione: il collegamento tra il culto di Santiago e la monarchia asturiana esplicitato dall’inno O Dei verbum e un’altra croce, che Alfonso III aveva destinato alla chiesa di Santiago nell’anno 874, sancendo un legame che sarebbe stato rinsaldato alcuni anni dopo, quando lo stesso re patrocinò la costruzione della seconda basilica di Santiago, consacrata da Sisnando di Iria nell’899.
Se si tiene conto del fatto che Teodomiro era stato nominato vescovo da Alfonso II (791-842), il re a cui rimonta anche la prima attestazione di una croce regale, e anche il primo a ricevere l’unzione regia, l’insieme degli elementi che legano la nascita del culto di Santiago alla monarchia delle Asturie acquista una certa coerenza e ci permette, inoltre, di delimitare cronologicamente tale fenomeno attorno alla prima metà del secolo IX. A questo insieme possiamo aggiungere ancora un elemento, e cioè quello stretto rapporto, verificato tanto per l’affermazione monarchica quanto per la diffusione del culto, con il vicino impero carolingio. Ho accennato precedentemente ai rapporti di amicizia che le fonti franche attestano già a partire dalla fine del secolo VIII quello che qui mi preme sottolineare è che tali legami influirono più o meno scopertamente anche sulla nascita del culto di Santiago. Non solo, infatti, ci giungono dall’impero carolingio le prime attestazioni della sepoltura iberica di Giacomo, ma, già a partire dall’inizio del secolo X, i riferimenti a pellegrini procedenti da luoghi dell’impero, o che di esso avevano fatto parte, si fanno relativamente numerosi. Tra le prime menzioni in assoluto è quella di un chierico del monastero di Reichenau, che si dice aver recuperato la vista dopo la visita a Santiago di Compostela. A metà del secolo, poi, è la volta del vescovo Gotescalco di Puy, che sappiamo aver iniziato il viaggio alla volta di Compostela tra il 950 e il 951
SANTIAGO VISTO DALL'ISLAM
Una conferma di tali dati viene anche dalle fonti arabe coeve e successive. Tra esse, è di particolare rilevanza la celebre descrizione di Santiago fornita da Ibn ‘Idhârî, autore maghrebino vissuto alla fine del secolo XIII ed autore di una celebre opera annalistica. Tale descrizione è legata al fatto politico e militare che fece entrare improvvisamente Santiago di Compostela nella storia dell’islam.
Era la fine dell’anno 387 del calendario musulmano, l’inizio del luglio 997 secondo il calendario cristiano, quando l’esercito musulmano si mise in marcia da Cordova alla volta di Santiago. A guidarlo era il ciambellano (hâjib) del califfo Hisham II, ‘Abd Allâh ibn Muhammad ibn Abî Amir al-Ma‘âfirî, che dal 371/981, quando aveva preso il titolo di al-Mansûr, deteneva di fatto il potere su al-Andalus, la regione della Spagna sotto potere musulmano. Il motivo contingente che lo spingeva così lontano era presumibilmente l’ennesimo segnale di ribellione del re di León Bermudo II, concretizzatosi nel rifiuto di versargli il tributo a cui era assoggettato; ma Santiago rappresentava, in un certo senso, anche il punto di arrivo necessario di quel vasto progetto militare e ideologico che lo impegnava ormai da anni in una forte ripresa del conflitto contro gli stati del nord. Questa era infatti la spedizione, la ghazwa, numero quarantotto, ultima di una lunga serie cominciata, stando a un autore quasi contemporaneo, già prima di assumere il titolo di hâjib, ma cresciuta di intensità a partire dal 981, l’anno della sua vittoria nella guerra civile che aveva attraversato il califfato.
Due furono, stando almeno alle fonti, le peculiarità di questa spedizione: la distanza innanzitutto - perché mai si era spinto così lontano, sino all’interno della Galizia (Ghalîsiyya) per una ghazwa - e poi perché doveva rappresentare evidentemente un bersaglio dotato di particolare rilevanza, tanto economica quanto simbolica, ammesso che allora tali categorie facessero necessariamente differenza. E’ a questo punto della narrazione che Ibn ‘Idhârî inserisce la descrizione di Santiago; una descrizione che, pur essendo il testo piuttosto tardo rispetto agli avvenimenti narrati, è basata presumibilmente su fonti precedenti. In essa leggiamo che Santiago (Shant Yâqûb), nella lontana Galizia (Ghalîsiyya), era il più grande luogo di pellegrinaggio (mashâhid) dei Cristiani che si trovasse nella terra di al-Andalus, un luogo la cui importanza per i fedeli era paragonabile, addirittura, a quella della Ka’ba per i musulmani. A questo sepolcro si recavano in pellegrinaggio dai limiti estremi del paese dei Romani (bilâd al-Rûm), in quanto si diceva che vi fosse custodito il corpo di Giacomo (Yâqûb), quello tra i dodici apostoli che aveva il rapporto più stretto con Gesù e che, proprio per questo era chiamato suo fratello. Anzi, molti di loro affermavano che anche Giacomo fosse figlio di Giuseppe il falegname e che, quindi, fosse il fratello del Signore (’akh al-Rabb).
Due sono i dati su cui mi sembra necessario soffermarsi: innanzi tutto l’esplicito riferimento al ruolo che sarebbe stato ricoperto dal sepolcro già alla fine del secolo X. I pellegrini vi giungevano dai limiti estremi delle terre dei rûm, e tanta era la loro devozione nel compiere quel viaggio che il sepolcro pareva, addirittura, ricoprire un ruolo analogo a quello della Ka’ba, centro focale del pellegrinaggio alla città di Mecca per i musulmani. E’ chiaro che siamo di fronte a una serie di argomentazioni volte, più o meno scopertamente, ad esaltare la grandezza dell’opera di al-Mansûr, ma quello che interessa qui è, più semplicemente, l’attestazione di un culto diffuso e di una pratica di pellegrinaggio che supera ampiamente i confini iberici. Un dato, questo, che ci viene confermato da una fonte ancora più interessante in quanto coeva ai fatti. Si tratta della poesia di Ibn Darrâj al-Qastallî, panegirista, della corte di al-Mansûr, che proprio a quella spedizione contro Santiago pare aver partecipato, e sulla quale scrisse alcune poesie celebrative; in una di esse parla di Compostela come del più elevato edificio dei politeisti, dove affluiscono Romani (rûm), Abissini (hubsh) e Franchi (franj)50. In secondo luogo dobbiamo considerare la confusione attestata tra i diversi Giacomo, il fratello di Giovanni e il fratello di Gesù, essa pare essere abbastanza diffusa nei testi arabi di provenienza andalusa e, probabilmente, rispecchia anche alcune analoghe teorie circolanti in ambienti cristiani. Non è questa la sede per approfondire l’argomento; mi limito a ricordare come l’idea che Gesù avesse dei fratelli fosse comunemente accettata nel mondo musulmano e che, ad esempio, il giurista e intellettuale di Cordova Ibn Hazm (m. 1064) la riportasse nel suo libro sulle religioni, specificando il loro numero e il loro nome (Simone, Giuda, Giacomo e Giuseppe) pur avendo cura di notare che tale credenza non era propria dei cristiani. Su Santiago, poi, ancora nel secolo XIV, un’opera anonima ricorderà che essa è la città di Giacomo (Yaqûb), figlio di Giuseppe il commerciante, il marito di Maria la giusta, come dicono i cristiani, e che in questa città si trova il suo sepolcro.
IL CONSOLIDAMENTO DEL CULTO
commerciante, il marito di Maria la giusta, come dicono i cristiani, e che in questa città si trova il suo sepolcro.
in tutti i calendari del secolo XI, il 30 dicembre figura, invariabilmente come giorno dedicato a Sancti Iacobi apostoli, fratris Iohannis apostoli euangeliste Una data strana, questa del 30 dicembre, specie se teniamo conto del fatto che tutti i martirologi inglesi e continentali concordano nel collocare la festa dell’apostolo Giacomo il 25 luglio, ma che probabilmente trova una spiegazione nel fatto che la Passio Sancti Iacobi, diffusa in Spagna dall’epoca visigota, collocava il martirio del santo tra quello di Santa Eugenia e Santa Columba, cioè, appunto, proprio negli ultimi giorni di dicembre.
I segnali di un rapido intensificarsi del culto di Santiago, a partire dalla seconda metà del secolo IX, si fanno, dunque, sempre più fitti. In questo senso, appare rilevante anche il rapidissimo accenno che si trova nella Cronaca Albeldense, in cui, enumerando i vescovi e le loro sedi, si cita Sisnando, vescovo di Iria, la città illustre per Santiago, e più avanti, si ricorda altrettanto brevemente, che nell’anno 883, sotto Alfonso III, Almundir distrusse totalmente i monasteri dei santi Facundo e Primitivo, cioè il monastero di Sahagún, una delle tappe fondamentali del cammino di Santiago. Da qui in poi le fonti attestano, con sempre maggiore chiarezza, come il culto e soprattutto la struttura del cammino di Santiago prendano a definirsi e articolarsi con crescente precisione e coerenza. Di questo abbiamo un’ulteriore prova - assai rilevante dal punto di vista del rapporto tra il culto e uno spazio determinato - nei cicli miniaturistici legati alla riproduzione del commento all’Apocalisse di Beato di Liébana, una delle opere più diffuse del medioevo iberico. Ora, tutti i codici a nostra disposizione presentano inizialmente una carta del mondo, una mapa-mundi che doveva figurare già nell’originale di Beato, come lascerebbe supporre anche il testo stesso, facendola precedere dalle parole sicut pictura demostrat. Naturalmente non conosciamo le caratteristiche della carta che doveva figurare nell’originale, ma quello che è certo è che nei Beatos di cui disponiamo (tutti, a parte alcuni frammenti, datati a partire dal secolo X) l’apostolo Giacomo è raffigurato con l’immagine di un edificio, unito alla parola Galletia, allusione evidente al santuario di Compostela. Così, ad esempio, nel Beato di Burgos di Osma è raffigurato un grande tempio con acclusa la scritta Sanctus Jacobus Apostolus, nel codice di Emetrio e Ende è invece raffigurata la testa dell’apostolo e la legenda Sancti Jacobi; ancora più chiaro è il foglio 71 del Regius Vaticanus 571, manoscritto del secolo X, che, accanto a un fiume del nord della Spagna, reca la scritta hic predicavit Jacobus. E si tenga conto del fatto che, almeno dal secolo X, una copia di quest’opera non mancava in nessun monastero importante del regno di León.
Il secolo successivo mostra un ulteriore consolidamento delle pratiche di pellegrinaggio e del culto; sappiamo, ad esempio, che nel 1072 vi erano moltitudini di pellegrini germanici, italiani e francesi che beneficiavano dell’abolizione del pedaggio che si pagava all’entrata in Galizia. Inoltre, alcuni anni dopo, nel 1075, sarebbe stata iniziata la costruzione della grande basilica romanica, quarta e ultima delle chiese di Santiago. E proprio in tale occasione avrebbe avuto origine un documento di grande rilevanza, la cosiddetta Concordia di Antealtares (1077): sostanzialmente un patto sottoscritto tra il vescovo di Santiago, Diego Peláez, e i monaci del monastero compostelano di Antealtares, allo scopo di ricomporre una serie di discordie nate proprio a proposito della costruzione della nuova chiesa di Santiago. Ciò che rende tale documento di particolare interesse è la lunga narratio in cui si definiscono, con relativa precisione, gli avvenimenti legati al ritrovamento del sepolcro di Santiago in Galizia. Per fare questo, il testo indica come fonte una presunta lettera di papa Leone. In essa si narra che il luogo della sepoltura era stato dimenticato e che il miracoloso ritrovamento cominciò grazie ad alcune luci, che richiamarono inizialmente l’attenzione, di un eremita, un certo Pelayo, e poi di altri fedeli di una chiesa vicina. A quel punto, richiamato dal prodigio, giunse anche il vescovo di Iria, Teodomiro, il quale, dopo tre giorni di digiuno, scoprì il sepolcro dell’apostolo Giacomo; ne diede allora notizia al re Alfonso II, il quale ordinò che sul luogo fossero costruite tre chiese: la chiesa di Santiago, una dedicata a Giovanni Battista e la chiesa monacale di Antealtares.
Pochi anni dopo questa data, ma sicuramente prima che Urbano II decretasse il trasferimento della sede di Iria a Compostela nel 1095, un anonimo chierico compostelano compose il cosiddetto Cronicon Iriense, il cui obiettivo, secondo le preoccupazioni del momento, sarebbe proprio quello di presentare la sede compostelana come legittima erede della sede iriense. Ed è secondo tale ottica che viene proposta la narrazione della inventio: Alfonso II, venuto a conoscenza da Teodomiro del ritrovamento del sepolcro, giunge in Galizia causa orationis, lì offre a Santiago molti doni, tra cui un territorio delimitato da Sionlla, Lestedo, e la villa Astructi; inoltre, trasferisce alla nuova chiesa dedicata a Santiago gli onori e la dignità della sede iriense. Sempre secondo questa cronaca, fu tenuta una riunione di saggi allo scopo di determinare il nome che occorreva dare al luogo appena fondato; tre furono le proposte: Locus Sanctus, Liberum Donum e Compositum Tellus, da cui il cronista fa derivare Compostella. E’ stato notato64 come tale curioso racconto possa avere avuto lo scopo di ricordare come la città di Compostela fosse la somma di due spazi: il Locus Sanctus, la dotazione iniziale della chiesa, e il territorio frutto della donazione regia, rivendicando così la signoria della chiesa di Santiago sopra la città di Compostela.
Da questo documento traspare, inoltre, un’altra necessità dettata dagli eventi: nel 1074 una carta di Gregorio VII sanciva l’urgenza dell’adozione, da parte della Spagna, del rito romano; e solo da Roma sarebbe potuta giungere l’autorizzazione al trasferimento canonico della sede iriense, ponendo fine, così, all’insicurezza che, a tale proposito, aveva generato la restaurazione della sede toledana nel 1088. Così, ricordare come il trasferimento della sede non avesse altra origine che quella del ritrovamento del sepolcro di Santiago, rappresentava un ulteriore tentativo di fondare la raggiunta autonomia della chiesa di Compostela.
E non è un caso, neppure, che la cronaca leghi cronologicamente il vescovo Teodomiro a Carlomagno e sottolinei il legame tra Alfonso II e l’imperatore. Il rapporto tra Francia e Santiago, l’abbiamo visto, era sempre stato forte, e ora, negli anni in cui Raimondo di Borgogna si trovava in Galizia e al soglio vescovile di Toledo saliva un francese, questo non poteva che intensificarsi. Poco dopo il 1095 anche a Santiago sarebbe giunto, per la prima volta, un vescovo francese: il cluniacense Dalmacio.
La Historia Compostellana, opera della prima metà del secolo XII ed espressione della forte personalità del vescovo Gelmírez, avrebbe in un certo senso portato a compimento le pretese dei testi immediatamente precedenti: Santiago era divenuta sede vescovile dal 1095; un corpo di sette cardinali, istituiti da Pasquale II, more romano, celebrava il culto supra corpus apostoli; Raimondo di Borgogna, conte di Galizia, era stato sepolto a Compostela e, infine, nel luglio del 1109 era morto Alfonso VI e il giovane Alfonso Raimúndez, che era stato battezzato da Gelmírez, di lì a poco sarebbe stato incoronato re di León a Compostela.
SANTIAGO MATAMOROS
Siamo dunque giunti oltre i limiti cronologici del presente studio senza aver trovato alcun accenno al tema che sarà successivamente riprodotto nelle state equestri del Santo. Ciò che si è visto, questo sì, è stata una progressiva elaborazione dottrinale del culto di Santiago in funzione della definizione di un esplicito legame tra spazio e potere: il luogo della inventio e il cammino che da lì si articola, non appaiono mai disgiunti dalla legittimità monarchica asturiana; e questo già, come abbiamo visto, dai tempi dell’inno O Dei verbum. Ma tale fatto, con buona pace di molti autori anche molto recenti, non implica affatto un legame originario tra Santiago e Reconquista. E ciò per due motivi fondamentali: in primo luogo, ovviamente, occorre dimostrare - e non è facile - che qualcosa di simile a una riconquista sia esistita nella Penisola iberica sin dall’inizio (ma con “inizio” intendo quasi un paio di secoli) della conquista musulmana; in secondo luogo rimane l’evidenza delle fonti, che mai, sino a tutto il secolo XI, legano Santiago alla guerra.
A quanto mi risulta, uno dei primi luoghi in cui questo rapporto viene esplicitato con chiarezza, è quello presentato dalla Historia Silense al momento di descrivere la presa di Coimbra: è il 1064 e Fernando I si accinge a strappare la città di Coimbra dalle mani dei musulmani; a Compostela un pellegrino greco ha una visione. Dopo avere pregato a lungo l’apostolo, il “buon cavaliere” (bonum militem) va in estasi e gli appare un grande cavallo bianco davanti alla porta della chiesa, mentre Santiago gli annuncia che il giorno seguente, all’ora terza, Coimbra sarà del re Fernando.
Troviamo la stessa notizia anche nel Liber Sancti Jacobi conosciuto comunemente come Codex Calixtinus (metà del s. XII): anche qui, infatti, appare al pellegrino greco l’apostolo Giacomo in occasione della presa di Coimbra. E da questo momento in poi è un moltiplicarsi di notizie del santo che, a cavallo e brandendo la spada, guida i cristiani nella lotta contro i saraceni. Un’idea, questa che, consolidandosi, agirà anche retrospettivamente, se è vero che la Crónica general di Alfonso X (seconda metà del secolo XIII), ricordando la battaglia di Clavijo, avvenuta al principio del secolo IX, racconterà di come Santiago apparve al re Ramiro I per tranquillizzarlo sull’esito dello scontro, perché Gesù l’aveva mandato a difendere la Spagna contro i nemici della fede ed egli avrebbe guidato i cristiani sul campo di battaglia, montando un cavallo bianco e brandendo una spada scintillante.
Sarà opportuno aggiungere alcune considerazioni. La prima ci viene proprio da quest’ultimo testo: il passaggio della Crónica general appena incontrato, infatti, è, nella sua prima parte, la traduzione castigliana del cosiddetto Voto di Santiago, atto con cui si sanciva una donazione annuale all’apostolo in segno di riconoscenza per la liberazione del territorio dai mori. Un voto, questo, il cui valore non fu scalfito dal tempo, se è vero che i Re Cattolici lo estesero al regno di Granada dopo la sua conquista (1492) e che in alcune zone rimase in vigore sino al secolo XIX. Abbiamo già visto come il culto dell’apostolo si fosse legato strettamente a una precisa determinazione territoriale; ma questo, ancora, non spiega come tale insieme relativamente eterogeneo confluisse nel più articolato discorso sulla guerra.
LA GUERRA E IL TERRITORIO
Sul finire del secolo XI si definisce un itinerario verso Compostela che assume la fisionomia concreta di una strada di pellegrinaggio, se intendiamo con tale definizione una rete viaria dotata di strutture assistenziali e devozionali finalizzate a condurre coloro che intraprendono il cammino sino a quella che è riconosciuta come meta del pellegrinaggio, cioè, in questo caso, il sepolcro di Santiago. Il quinto libro del Liber Sancti Jacobi, generalmente noto come Guida del pellegrino di Santiago, assolve, appunto, il compito di sancire tale definizione dello spazio. Quattro erano le vie che conducevano verso la Spagna e che lì si riunivano in una sola. La prima era la via tolosana, seguita dai pellegrini provenzali, ma anche dagli italiani e dagli slavi, che la raggiungevano sia attraverso le Alpi, sia passando la costa ligure; anche se, per influsso delle tradizioni carolingie, già dal secolo XII si sarebbe preferito entrare in Spagna dal valico di Roncisvalle. Vi era poi la via podense, che iniziava ai piedi di Notre Dame du Puy e che rappresentava il punto di raccolta dei pellegrini borgognoni e tedeschi. Per Limoges, invece, passava la via lemovicense, utilizzata tanto dai borgognoni, quanto da pellegrini francesi, tedeschi, fiamminghi e scandinavi. E infine la via turonense, così chiamata in quanto passava per la città di Tour, considerata il magnum iter Sancti Jacobi, in quanto in essa convergevano gran parte dei pellegrini del nord Europa. Punto di incontro spagnolo di questi quattro itinerari francesi era, stando alla Guida, Puente la Reina, un centinaio di chilometri a sud-ovest di Roncisvalle (da cui successivamente, come già detto, comincerà il Cammino), sulla strada che passa per Pamplona e che attraversa, seguendo parte degli antichi tracciati romani, città quali Logroño, Burgos, León e Astorga.
Non è un caso che tale struttura trovi la sua definizione solo nel secolo XII. A tale proposito è ben noto che l’idea stessa di peregrinus come persona che viaggia per motivi religiosi, non sia precedente al secolo XI. Quando Dante nella Vita nuova, ricorderà che il termine “pellegrino” si può intendere in due modi, sancirà di fatto la distanza tra uso antico e, per così dire, moderno, della parola: in senso largo, pellegrino è chiunque è fuori dalla sua patria, secondo l’uso antico del latino peregrinus che, appunto, indicava lo straniero; in senso stretto, invece, pellegrino altri non è che colui che si dirige verso la casa dell’apostolo Giacomo. E’ in questi secoli, dunque, senza avventurarci in problemi già sin troppo noti, che prende a definirsi la struttura del pellegrinaggio; e di tale radicale innovazione sono spie evidenti tanto le prime testimonianze scritte di una struttura viaria articolata, quanto le attestazioni di mutamenti lessicali relativi al pellegrinaggio stesso.
Detto questo, ritorniamo allora al cammino. Abbiamo visto come anche la Guida del pellegrino sottolinei la rilevanza dell’elemento francese anche nella definizione spaziale del percorso; pur non ritenendo necessario esagerarne l’importanza, non si può, a tale proposito, passare sotto silenzio il ruolo giocato dal movimento cluniacense nella definizione delle strutture del cammino. Il fatto che a partire dal secolo XI gli interessi politici di Cluny presero a unirsi sempre più strettamente a quelli della casa di Borgogna, contribuì innegabilmente allo sviluppo della peregrinazione iacobea: le abbazie e i monasteri che sul cammino facevano capo a Cluny, assicuravano ai sovrani iberici tanto una serie di fondamentali legami politici quanto il mantenimento del culto regio spagnolo, di cui l’ordine cluniacense era garante. La struttura spaziale del cammino di Santiago, rivelava, insomma, l’antico legame con la Francia; legame che, come è stato spesso sottolineato, giungeva persino ad armonizzare anche le caratteristiche architettoniche, definendo uno stile relativamente unitario.
E, nell’evoluzione del culto iacobeo, anche l’elemento della guerra non può essere cercato facendo astrazione da questo ininterrotto legame con il nord dei Pirenei. Non è un caso, infatti, che proprio all’interno del Codex Calixtinus, come libro IV, trovi posto la cosiddetta Historia Karoli Magni o Historia Turpini, un testo composto presumibilmente tra il 1130 e il 1140, in cui si raccolgono precedenti leggende epiche e annotazioni storiche, con lo scopo di presentare Carlo Magno come liberatore della Spagna e come primo pellegrino compostelano. Pur all’interno di una struttura narrativa fantastica, i cui elementi principali appaiono desunti da precedente materiale epico, il testo definisce attraverso la figura di Carlo Magno un’elaborazione ideologica del conflitto contro i musulmani, avendo cura di specificare, attraverso il culto a Santiago, la legittimità del potere cristiano sull’occidente.
A tale proposito è stato recentemente sottolineato come gran parte dell’epica francese del periodo si sviluppi proprio attorno al cammino di Santiago: di questo non è testimonianza solo l’importanza data ai saraceni in tali canzoni di gesta, ma, molto più, precisamente la stessa toponimia, spesso un adattamento francese dei nomi di note località poste sulla via iacobea. Questo ad esempio ritroviamo nell’Assedio di Cartagine, dove la Saint-Fagon di Carlo Magno cela la città di Sahagún, e così è per le città perse dal cristiano Anseïs contro i musulmani: Ravenel (Rabanal del Camino), Estorges (Astorga), Lion (León), Maisele (Mansilla), Castesoris (Castrogeriz).
IL NEMICO DEI MUSULMANI
Gli elementi sono tutti qui. Cosa abbia contribuito, però, a combinare questo peculiare rapporto tra culto del santo, potere e spazio in un insieme coerente esula, almeno in parte dagli scopi del presente studio. In un’altra sede ho studiato l’evoluzione dell’idea del nemico musulmano nella Spagna cristiana: da lì, ritengo, occorre partire per identificare i nodi che contribuiranno a legare indissolubilmente il culto di Santiago alla guerra.
In una scena di battaglia narrata dal Poema de mio Cid, tra corazze deformate dai colpi e pennoni bianchi rossi di sangue, si staglierà un’immagine dei due gruppi avversari non priva di interesse: da una parte i mori (moros) che invocano Maometto, dall’altra i Cristiani che inneggiano a Santiago; il lungo processo di definizione del culto giacobeo pare qui essere giunto già a un suo consolidamento. Da quel momento si manifesta con sempre maggior chiarezza il legame tra Santiago e la guerra contro i musulmani. Ma vi sono radici antiche in questo: il rapporto tra l’apostolo e la legittimità asturiana, il fatto che questo rapporto definisca con relativa chiarezza il possesso del territorio, a cominciare dalla definizione di una serie di percorsi, il rapporto mai sopito con la monarchia francese. Santiago riassume in sé l’avvenuta costruzione di uno spazio - distinguere tra “territoriale” e “politico” sarebbe, di fatto, ozioso -; l’immagine della guerra tra i cristiani e i saraceni, ma il mio è solo un suggerimento preliminare, giungerà dopo, a definire retrospettivamente un potere consolidato.

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